Abbiamo un problema con il coinvolgimento del personale
Verrebbe da dire: “Houston, abbiamo un problema”. Solo che questo problema non è per nulla così lontano dalla nostra realtà quotidiana, nello spazio o oltre l’Oceano, ma pericolosamente vicino e da affrontare senza tentennamenti e false ipocrisie da parte dei professionisti HR italiani e dagli imprenditori che abbiano a cuore il destino delle proprie aziende.
Il problema in questione è quello relativo al coinvolgimento del personale aziendale, rispetto al quale il nostro paese “brilla” per essere il fanalino di coda in Europa, con distanze spesso siderali in confronto ad altre realtà contigue, e senza che ci siano segnali tangibili di qualche miglioramento. Che ci sia da intervenire in maniera concreta per riempire di contenuti quella “people strategy” che altrimenti rischia di rimanere solo una buona pratica in teoria e sulla carta, ma non attuata nella nostra realtà lavorativa quotidiana?
Crediamo assolutamente di si, e per inquadrare al meglio la questione vogliamo analizzarla mediante l’ausilio dei numeri raccolti dall’importante rapporto Gallup “State of the Global Workplace 2022”. Dove per l’appunto l’Italia risulta all’ultimo posto per l’employee engagement, ovvero il coinvolgimento del personale, con solo il 4% del campione interpellato che ha risposto di sentirsi parte della cultura aziendale, di condividerne i valori e di essere coinvolto nel raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Un dato che per di più è in tendenza stazionaria rispetto agli anni precedenti, segnale che nulla sostanzialmente si stia muovendo su questo fronte. La media europea si attesta su un livello comunque bassino, al 14%, confermando come da questo punto di vista ci sia più di un problema nel Vecchio Continente. Prendendo i dati relativi agli Stati Uniti e al Canada, la media dei collaboratori “ingaggiati” sale infatti al 33%, con quindi almeno un lavoratore su tre che si sente coinvolto nella sua realtà quotidiana.
I collaboratori italiani denunciano inoltre un alto livello di preoccupazione, con il 45% di loro che sperimenta quotidianamente questa sensazione, e un livello di stress allarmante, che va a intaccare la serenità di un lavoratore su due (49%). In entrambi i casi il dato italiano si colloca nei primi dieci posti nella classifica europea, anche se appare evidente come in questo caso siano i paesi che rimangono sul fondo quelli che godono di maggiori benefici.
Colpisce in maniera particolare il dato raccolto relativo alla “tristezza” percepita durante le giornate. Qui di nuovo balziamo in cima alla classifica, dietro soltanto a Cipro settentrionale, con un dato percentuale del 27%, 8 punti sopra Francia e Germania, 10 sopra Austria e Svezia, e ben 15 sopra i valori registrati in Svizzera e Finlandia.
Indagare le motivazioni che si nascondono dietro questa tristezza percepita, e degli alti livelli di preoccupazione e di stress, non significa soltanto andare a guardare alla voce retribuzione e tentare di mettere gli stipendi italiani in paragone con le altre realtà europee citate. In gioco, oltre alle questioni puramente economiche, entrano tutta una serie di fattori che coinvolgono la persona del lavoratore nella sua interezza e il suo rapporto con le attività svolte nel corso delle giornate.
Sembra chiaro che, al di là delle difficoltà del nostro mercato del lavoro, ci sia da affrontare un cambio di mentalità piuttosto radicale, che metta al centro la persona e l’equilibrio tra la vita privata e la sfera lavorativa, per poter conseguire il traguardo di avvalersi di collaboratori motivati, che si sentano parte del progetto aziendale e ne condividano i valori.
In una fase come questa gli imprenditori dovrebbero fare affidamento su professionisti HR capaci di “misurare la temperatura” aziendale e insieme di proporre gli adeguati aggiustamenti, anche avvalendosene in regime di temporary management. Persone altamente qualificate che abbiano compreso, e siano in grado di far comprendere, la differenza tra veleggiare e galleggiare a malapena.